ARTURO SANTILLO: LE STANZE DELL’ANIMA

 

Luciano Caprile  

 

L’uomo e il suo rapporto col trascendente continua a essere un argomento obbligato per tutti coloro che si confrontano col mistero dell’esistenza in una società che sembra voler accantonare i temi  dello spirito a tutto vantaggio di un materialismo consumistico che riconosce solo i valori di un accelerato presente. A tale proposito da sempre Arturo Santillo interroga e descrive l’inquietudine che assale la gente quando, riposti gli abiti dell’apparenza e della superficialità, deve fare i conti con le pulsioni e con le domande che sorgono dall’anima. Santillo affronta pittoricamente il problema in maniera antica e attuale mettendo a frutto gli insegnamenti della classicità e le istanze che sorgono dal quotidiano allorché ci tende trappole di riflessione. Innanzitutto egli rappresenta l’uomo (e la donna) con le sembianze di un angelo che ha smarrito la grazia e si affanna a riconquistarla ponendo in atto un travaglio di espiazione e di resurrezione, nel tentativo di recuperare quella memoria celestiale di cui è nutrita la speranza. Nell’affrontare un simile percorso l’uomo è destinato a cadere per rialzarsi e per ricadere ancora.

Le scene raffigurate sono sospese in un limbo plumbeo, uniforme, che sa di perenne travaglio mentale e fisico. Le stesse scene offrono alla contemplazione una metamorfosi di membra che a seconda dei casi conquistano o smarriscono le ali della lievità ascensionale; contemporaneamente i volti possono assumere gli atteggiamenti della sofferenza o della soavità, del rammarico o dell’attesa del riscatto. Di contro i corpi non perdono mai la loro sostanza: rimangono ancorati alla concreta e plastica armonia delle forme, nella perenne attesa di una sentenza. In un tale ambito la Divinità è un’idea che traspare ovunque come un necessario nutrimento dei gesti e dei comportamenti; in un tale ambito la Divinità viene percepita o evocata nelle allegorie: quasi paradossalmente la presenza del Giudice Supremo diventa più pressante e più incombente nei momenti della sua negazione, della sua cancellazione, del suo traumatico abbandono. Le figure di Santillo non possiedono una sacralità da contemplare ma da conquistare con una disposizione emozionale di non sempre facile acquisizione. Guardare le scene e trasferirle nell’intimo sembrano i passi necessari  per quella condivisione che rimane legata alla personale capacità percettiva che ciascuno deve attivare al cospetto dei singoli momenti presi in esame.

 Per meglio recepire i vari momenti del complesso racconto l’attuale rassegna viene distillata in stanze che raccolgono e cadenzano i tempi di un percorso caratterizzato da una sofferta introspezione. Si intitola Redento la grande tela che accoglie inizialmente i visitatori. Una figura in primo piano dalla possanza michelangiolesca, seduta su un braccio deposto della croce, intinge il piede in una salvifica acquasantiera e sorregge un corpo in sospensione trattenuto dalle funi. Si tratta del Cristo di cui non siamo in grado di conoscere il volto. O, meglio, il volto è da scegliere tra le varie opportunità esibite dall’artista in una sequenza di piccoli ritratti da applicare idealmente sulla parte mancante. Sono questi a fornire il corredo necessario a completare questo primo approccio visivo. Possiamo optare per un viso severo e giudicante, per un profilo di muta invocazione al cielo, per un estremo soffio di agonia, per un velato desiderio di sparizione o per uno sguardo di amorosa dolcezza. Sono espressioni umane che ci appartengono e che sono appartenute al Cristo quando si è fatto uomo: alla conclusione dell’estremo sacrificio le ha lasciate a noi come specchio e come scelta. Nel grande dipinto, provvisto di una predella che consente una suggestiva espansione basale dell’immagine, il volto non ha più ragione di esistere perché ha già raggiunto una struttura celeste che non siamo in grado di comprendere e tanto meno di descrivere.

In una qualche misura lo stesso argomento viene riproposto nella sala successiva con le Dubbie identità. Il  principale dipinto di riferimento presenta infatti al proscenio una figura angelicata colta in un evidente travaglio di gesti e di pensieri ora che ha sciolto i legacci che ne trattenevano i movimenti. Il volto che emerge dall’arcuata penombra diventa un personale esempio di rappresentazione che moltiplica le opzioni fisionomiche nella ulteriore sequenza di teste proiettate verso l’alto a occhi chiusi, in qualche caso bendati. Nel terzo quadro un angelo femmineo dispiega le ali ma non riesce a sollevarsi da terra: abbassa quindi le palpebre concedendole alla malinconia. La difficoltà del confronto con se stessi e del vaglio dei comportamenti emerge in tutta la sua evidenza in questa breve sequenza scandita in un freddo rigore architettonico che amplifica a dismisura la debolezza dell’uomo e la conseguente inquietudine.

Il percorso narrativo incontra quindi ulteriori complicazioni logiche nell’Abbraccio, un’opera che qui trova la corrispettiva eco in Losche figure. Siamo al cospetto di un atteggiamento ad alto rischio ( il contatto amoroso con un diavolo travestito da cherubino ) e delle sue drammatiche conseguenze: le scelte e i tradimenti nei confronti di sé e degli altri conducono sovente alle catastrofi intime e relazionali.

La quarta sala ci riconduce al mistero della creazione e all’origine della perdizione. Se la Nascita di Adamo, aerea e sognante, si dipana nel sorriso di una promessa paradisiaca, la successiva Rivelazione carnale conduce alla cancellazione del contratto divino e al precipizio; segue la Morte del corpo avvolto nel sudario che rende vano ogni tentativo ascensionale bloccato dalla pesantezza delle membra che hanno smarrito ali e sentimenti.

Con l’Annunciazione giunge finalmente la speranza evangelica del riscatto: il messaggero scivola verso Maria in una successione di fotogrammi d’attesa che sigillano i tempi dell’accordo con l’Altissimo. La candida ala si dispiega armonicamente nello spazio e lo conquista per sempre agli occhi del mondo di allora e di noi che ancora oggi ne ammiriamo gli esiti. In Deposizione osserviamo il Cristo ripreso in una fuga prospettica frontale che rammenta l’analoga interpretazione del Mantegna. La conclusiva Resurrezione chiama in causa il Gesù ancora uomo

( ma già guarito delle ferite dei chiodi e della lancia ) nell’atto di liberarsi delle bende e di elevarsi verso il cielo. In lui siamo di riflesso tutti noi disperatamente ancorati alla promessa di salvezza e al relativo auspicio. L’invocazione di ciascuno è trasferita idealmente nei pensieri che scorrono alla base del dipinto e accolgono il doppio, speculare profilo della Madonna.

Infine prendiamo atto della constatazione che Non siamo angeli e pertanto dobbiamo aggrapparci a una simile consapevolezza e alla volontà di superare i poveri limiti umani per non cadere nelle spire della perdizione: occorre aspirare a quell’Oltre che può significare un approdo salvifico ai tormenti dell’esistenza.

Questa è dunque la suggestione suscitata dalle attuali opere sciorinate come un rosario nella loro distaccata imponenza: in un distillato silenzio diffuso nell’aria  suggeriscono interrogativi di fondamentale importanza. Occorre che ciascuno interroghi dunque da sé queste tele, raccolte per temi, e si interroghi. Santillo, con la coscienza dell’estro, ha messo in campo una storia criptica da decifrare per farla diventare la storia di chi desidera aprire a simili istanze la mente e il cuore. Per fare ciò Arturo Santillo si è affidato a un’arte capace di rivolgersi all’assoluto, a un’arte che, per esprimersi con suadente efficacia, non tiene conto dei tempi e delle mode.