Silvia Campese scrive di Santillo: «L’opera di Arturo Santillo capovolge e reinterpreta la concezione di "Bello Ideale” winckelmanniano. Pur richiamando, nella perfezione e bellezza dei corpi, un modello neoclassico, dove la proporzione delle forme rispecchia l’equilibrio interiore, anche nei sentimenti più drammatici, la sua opera è dominata da un senso di indefinito e metafisico mistero».
Così lo interpreta Silvia Campese: «La bellezza ideale, dunque, costituisce l’occasione per l’ingresso in una dimensione estremamente complessa dove letteratura, religione e sentimento assumono una valenza universale e arcaica quanto la storia dell’uomo. La scrittura, spesso utilizzata quale ideogramma, rappresenta il senso eterno del bisogno di comunicazione dell’uomo. Allo stesso modo, la religiosità acquista una valenza laica e simbolica: esperienza comune a ogni civiltà, la fede è anelito proprio dell’uomo in una lettura prima ancora antropologica che di fede».
E poi prosegue: «Allo stesso modo è affrontato il tema della morte. La sapienza tecnica si intreccia al contenuto in un attento studio in cui il corpo appare dormiente, appena abbandonato dalla vita, in una tensione muscolare ancora legata alla carne. Dopo la contrazione nel dolore, l’abbandono in una dimensione che non è dato comprendere a chi sta intorno. Mute, le figure nell’opera di Santillo attraversano un proprio travaglio che supera il concetto di Kalokagathia verso una nuova ricerca, "non conoscendo da parte degli dei nè bene nè male”».
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Arturo Santillo e Silvia Campese
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